Come nasce “L’ultima ombra d’estate” di Mario Mattia
di Mario Mattia
29 marzo 2023
“L’ultima ombra d’estate” è nato così.
Un racconto breve, di 9000 caratteri, scritto per sfida. Dove non si vinceva nulla oltre la soddisfazione di essere riusciti a condensare una trama gialla in poche righe. Una volta finita, però, quella storia restò lì, in fondo al cassetto (molto romantica l’idea del cassetto, purtroppo sorpassata da una più fredda e moderna sequenza di byte) a dormire sonni sereni. Tempo dopo, un veloce e casuale passaggio da Licata, a trent’anni di distanza dall’ultima volta che ci avevo messo piede, è stato sufficiente a innescare un corto circuito dove quella breve storia si incrociava con quello che per tutta la mia infanzia e adolescenza era stato un palcoscenico fantastico. Fatto di meravigliose spiagge e di bollenti pomeriggi estivi trascorsi a sventolarsi, in attesa di uscire per le immancabili e noiosissime visite a zia Italia o a zia Olimpia e, più tardi, a zio Benito dove avrei ricevuto baci, complimenti perché mi stavo facendo un giovanottino e qualche dolcetto preso da scatole di latta blu. E da mille altre cose che per me, ragazzo di città, risultavano strane o noiose. O tutt’e due. E talvolta divertenti. Come quel chiamarmi “signorino” da parte del personale di servizio che lavorava a casa dei miei zii. E poi il dialetto, curioso e affascinante, che parlavano i miei compagni e compagne di giochi sulla spiaggia. E le feste di Natale trascorse a giocare tra i tavoli dove i grandi facevano interminabili partite a “cucù” e a “sette e mezzo”. E gli immancabili pupi di zucchero della festa dei morti, accompagnati dalle altrettanto immancabili pistole da cowboy i cui botti avrebbero riempito le grandi stanze della casa degli zii per molti giorni. E la tradizione della notte tra l’uno e il due novembre, quando noi bambini non dovevamo per nessun motivo scendere dal letto o i fantasmi ci avrebbero mangiato i piedi. Solo una cerimonia dove le zie, armate di scopa, spazzavano tutte le stanze della casa al grido “nesci diavulu, trasi Gesù”1 ci avrebbe salvato, la mattina dopo, da quella orribile mutilazione. Inutile dire che i cugini più grandi si divertivano a venire a grattarci i piedi in piena notte, suscitando grida e spavento in noi piccoli e grandi risate tra loro.
Fondere queste cose con quella trama gialla, risvegliata dal letargo informatico in cui l’avevo relegata, è stata un’idea che fin da subito mi ha trascinato in una rievocazione di fatti, persone e situazioni che hanno piano piano ripreso vita dentro di me, illuminati dalla luce della maturità e nella penombra della tristezza, visto che molte delle persone che popolano questi ricordi non ci sono più. Il personaggio di Marco è stato il più semplice da creare. Lo avevo avuto davanti tanti anni fa, alle assemblee politiche, alle manifestazioni. Era quello che camminava a testa bassa, che sorrideva poco e si infiammava oltre misura appena un diritto veniva calpestato o un debole maltrattato. Gli altri personaggi li ho incontrati e li ho osservati. Alcuni da lontano, altri da vicino. Caratteri che mi hanno colpito e che ho fatto recitare sul palcoscenico che ho già descritto, a metà tra verità storica e verità narrativa.
Adesso, però, il sipario è chiuso e gli attori hanno fatto le valigie. Il prossimo spettacolo sarà a casa di chi sfoglierà questo libro. E, se alla fine ci saranno applausi o fischi, non farà differenza. Perché ringrazieranno lo stesso.
1 “Esci diavolo, entra Gesù”