Roberto Serra torna a Case Rosse: ecco come è nato “È così che si muore”

Roberto Serra torna a Case Rosse dieci anni dopo le vicende di Venti corpi nella neve. Eppure, è come se da lì non se ne fosse mai andato. Come non sono mai davvero andato via io dall’Appennino, anche se l’ho lasciato – non definitivamente, non per sempre – quando ero ragazzo. Le mie radici e un’abbondante porzione della mia anima sono rimaste lì, nel più bel mare d’Italia, come lo definiva Marco Santagata. Ancor oggi, se qualcuno mi chiede «Di dove sei?» rispondo, senza esitazioni: «Di Zocca». Eppure, ormai, è di gran lunga maggiore il tempo in cui non ci ho vissuto rispetto a quello che ci ho trascorso.

Case Rosse è uno specchio, una libera interpretazione del “mio” mondo. Serra aveva bisogno di tornarci, dopo un lungo peregrinare. E io avevo bisogno di riportarcelo, ma serviva la storia giusta. Una storia d’Appennino. Non è un caso che la storia che poi è diventata È così che si muore abbia iniziato a prendere vita durante il lockdown del 2020. Nel momento in cui tutti sperimentavamo una fragilità sconosciuta, ho avuto bisogno di rifugiarmi – almeno con l’immaginazione – in un luogo che ho sempre considerato sicuro. Per proteggere me stesso e le persone a cui voglio bene. Tra cui una che se ne è andata prima che io potessi dedicarle finalmente un romanzo: mia mamma, che è presente – seppure “in maschera” – nella storia. Insieme a Roberto, a quella forza della natura di Rubina (che spero amerete), a tutti i personaggi immaginari e a quelli reali che vivono in un paese di mille anime sospeso tra Modena e Bologna.

Se vi capita, fateci caso: quando si muovono tra i castagneti del Monte della Libertà o in piazza, davanti all’osteria di Alver, con loro c’è sempre un bambino coi ricci e gli occhi azzurri che cerca di assorbire ogni particolare, per tenerlo dentro fino a quando anche lui, finalmente, potrà tornare a casa.

Di Giuliano Pasini